Antonino Protettì nel 1880

FRANCESCO PROTETTÌ E I SUOI FRATELLI – Garibaldini calabresi

di Cesare A. Protettì*

Non parliamo poi dei miei bisnonni o trisavoli dell’800 che parteciparono con entusiasmo alle lotte per il Risorgimento, che gustarono il sapore forte dell’emancipazione, della libertà di essere quello che erano, eguali e diversi dagli altri, come sono tutti gli uomini. L’eredità che mi hanno lasciato è chiaramente riconoscibile. E’ grazie a loro se sono italiano. E’ grazie a loro se ho ereditato il culto della libertà dei popoli, il rispetto per l’identità altrui”.

(Arrigo Levi, Una vita non basta, 2009, pag. 278)

Questa è la storia del nostro quadrisavolo Francesco – patriota e garibaldino – e del palazzo perduto di Monteleone di Calabria, cittadina ribattezzata nel 1928 Vibo Valentia per volere di Mussolini. Oggi Vibo Valentia è un capoluogo di provincia di circa 33 mila abitanti, situato sulla Costa degli Dei, sul Tirreno. E’ una storia che affido alle mie nipotine Amanda, Matilde e Olimpia e agli altri giovani Protettì sparsi per l’Italia sperando che non considereranno dei “rompicollo” i loro avi protagonisti di una pagina del Risorgimento, ma li vedranno come uomini coraggiosi pronti a difendere fino al sacrificio gli ideali di libertà e riscatto. E ne saranno orgogliosi, come lo erano quei concittadini che onorarono la memoria di uno di loro intitolando a Francesco Protettì, il professore, liberale e patriota, una via importante del centro di Vibo Valentia.

Le notizie più copiose su Francesco e i suoi fratelli garibaldini le abbiamo ottenute grazie a un libricino del 1877, intitolato “Ricordo del prof. Francesco Protettì” di Apollo Lumini, letterato e patriota calabrese, che ho trovato nella biblioteca di mio padre. Un breve testo (una trentina di pagine) che – tra l’altro – mi ha fatto capire come funzionava la giustizia nella seconda metà dell’800, prima dell’unità d’Italia (a dire il vero non è che, dopo, le cose siano andate molto meglio). Mio cugino Domenico, di Vibo, ha fatto anche di più, scrivendo nel 2011 un bel saggio, intitolato “La rivoluzione a Monteleone”. Un altro cugino, Lanfranco, di Talamello ha conservato la sciabola e le medaglie del fratello più giovane, Antonino, che gli sono state richieste per una mostra del 2011 sull’Unità d’Italia alla Rocca di San Leo.

Da quello che scrive Apollo Lumini e da quanto risulta da altri documenti rintracciati, Francesco era il più colto e politicamente preparato; Pasquale e Giuseppe, i più piccoli, non si tiravano indietro quando c’era da combattere; Leoluca (Luca) Protettì, il mio avo diretto, il più battagliero: non solo fu protagonista dei moti del ’48, ma poi, con i suoi amici e due fratelli, nel 1860 aiutò Garibaldi e le camicie rosse contro i borbonici nella zona di Curinga, oggi uno dei borghi d’eccellenza della provincia di Catanzaro. E, probabilmente raggiunse Antonino nelle Romagne nel 1866, lasciando a casa la moglie Rosa Marsilli e cinque figli, un maschio e quattro femmine.

Francesco Protettì era nato nel 1823, quando la Calabria faceva parte del Regno delle due Sicilie ed era governata dai Borboni. Era un letterato e insegnante molto stimato: alla sua scuola accorrevano molti giovani, scontenti dei “professori pubblici, pagati appositamente dal governo perché allevassero una generazione di cervelli eunuchi e di cuori imbastarditi”, scrive Apollo Lumini. Logico che i professori privati, come Francesco, rappresentassero fumo negli occhi per i governanti borbonici e fossero duramente perseguitati quando nel clima del ’48 scoppiò la rivolta contro la monarchia prima a Messina – scrive Lumini – e poi a Reggio e poi Gerace, Monteleone, Pizzo, fino a Cosenza”.

A Monteleone, tra il 19 e 20 maggio 1848, i rivoluzionari disarmarono 130 gendarmi e Francesco Protettì, che allora aveva 25 anni, fu eletto Commissario di Guerra. La reazione borbonica non si fece attendere: arrivarono i bastimenti dell’esercito del generale Nunziante che puntarono subito sulla piana dell’Angitola (un piccolo fiume che sfocia nel golfo di Sant’Eufemia) dove erano accampati gli insorti. “Nunziante – scrive Apollo Lumini – pensava di coglierli alla sprovvista e di disperderli. Ma la cosa andò altrimenti per il coraggio di Luca Protettì, fratello minore del nostro Francesco” e di un altro patriota, Giuseppe Santulli, che era riuscito a sottrarre una copia del piano d’attacco al segretario personale del gen. Nunziante. Luca Protettì – scrive Lumini – “allora caldo di giovinezza e di entusiasmo, si offerse di recarlo all’Angitola. Gli insorti, avvisati in tempo, sostennero l’assalto e finalmente i borbonici, sbaragliati, furono costretti a tornare indietro”. Ma fu un fuoco di paglia. Passato il primo entusiasmo le fila dei liberali a poco a poco si sgonfiarono, anche perché molti contadini dovevano tornare alle loro terre per raccogliere le messi e fare lavori campestri. In quattro-cinquecento si dileguarono. Alla fine le truppe borboniche ebbero la meglio; si scatenarono in violenze e saccheggi contro le città calabresi ribelli. Solo Monteleone si salvò.

Una volta restaurato il potere borbonico “cominciarono gli arresti dei liberali, i nomi dei quali erano scritti da gran tempo nel libro nero della polizia”, racconta Lumini. “Francesco Protettì, con Carlo Suriani ed altri, fu arrestato e condotto alla baracca Fabiani. Legato ed esposto al sole per mezza giornata, fu di là trasferito all’ospedale militare”. “La città era angosciata per la loro sorte ed essi si aspettavano di esser fucilati”. Ma, dopo quattro giorni, temendo una insurrezione popolare il generale Nunziante decise di rimettere i prigionieri in libertà. Francesco salvò la pelle, ma da quel momento la sua famiglia cominciò a decadere “perché i suoi beni andarono a impinguare le casse della polizia e dei suoi agenti”.

Nei mesi seguenti Francesco fu nuovamente arrestato con un pretesto. “Condotto in carcere, ogni giorno la polizia avvisava di tener pronte quattro o cinque carrozze per condurre il prigioniero a Catanzaro” per il processo. “La commedia si ripeteva ogni giorno e centinaia di lire se ne andarono per pagare carrozze, guardie, gendarmi ed altri di quella gente, dappoiché trattandosi di prigionieri politici il paterno governo di Ferdinando di Borbone metteva a loro carico non solo tutte le spese processuali ma anche quelle per mantenere la sbirraglia”.

Finalmente il prigioniero da Monteleone fu condotto a Catanzaro e ci fu il processo. “In tale circostanza – scrive Lumini – si può dire che la famiglia diede fondo ad ogni suo avere”. Del processo troviamo traccia nei documenti della Gran Corte Criminale di Calabria Ulteriore : “D. Francescantonio Antonucci, proprietario, e D. Francesco Protetti, proprietario, furono imputati di “saccheggio di armi ed effetti militari ai danni del Real Governo, commesso con pubblica evidenza e col reo fine di distruggere e cambiare il governo” e condannati “a due anni di prigionia e a ducati cento di malleveria”. Quindici giorni prima che finissero di scontare la pena arrivò l’amnistia di Re Ferdinando. “Ma nemmeno allora il governo cessò di perseguitarlo e dopo pochi mesi fu costretto a chiudere la sua scuola e per sospetto di cospirazione fu esiliato a Catanzaro”. Intanto la sua famiglia andava di male in peggio. Il bel palazzo di famiglia era finito nelle mani del capo della polizia. “Nel 1853 – scrive Lumini – prese in moglie Caterina Adamo, si dice per consiglio del sottintendente, promettendogli che la polizia non l’avrebbe più molestato”.

Fin qui il passato liberale e antiborbonico di Francesco. Nel 1859 lo ritroviamo tra i sostenitori di Garibaldi e dell’unità d’Italia. “La guerra dell’indipendenza aveva raccolto l’Italia attorno alla bandiera dei Savoia” e anche nel Regno delle Due Sicilie c’erano fermenti insurrezionali. Poi nel 1860 giunge in Sicilia Garibaldi alla testa dei Mille. Le truppe borboniche, temendo uno sbarco in Calabria dopo i successi dei Mille in Sicilia, fanno di Monteleone, dove erano schierati 12.000 uomini con molti pezzi di cannone, il perno delle loro operazioni. E qui Apollo Lumini è molto dettagliato: “Un giorno che i borbonici mossero per la via dell’Affaccio, non sappiamo se per muovere contro i garibaldini a Reggio o per qualche esercizio militare, Francesco Protettì, colto il destro, abbandonando la moglie e la figlia, si gittò in campagna con ventiquattro giovani. Tra questi erano Luigi Bruzzano, i tre fratelli Pasquale, Giuseppe e Luca Protettì, … e Candela Giuseppe, famoso per i 130 anni di prigione a cui in diversi giudizi era stato condannato… Con questi giovani adunque, per la massima parte suoi scolari, si mise in cammino alla volta dell’Angitola dove era in formazione un campo di insorti. La piccola comitiva era priva affatto di armi, eccettuati due gendarmi borbonici indotti anch’essi a disertare. La via per andare al campo era tutt’altro che facile, tutta infestata di truppe regie e per evitare di cadere nelle loro mani, si dovette passare per scoscese e burroni, boscaglie e terreno mal fermo”.

Man mano arrivarono altri giovani. Dopo aver trovato alloggio e ristoro a Maida, i 24 coraggiosi salirono a Filadelfia e qui giunse la notizia che i borbonici avanzavano. Il generale Francesco Stocco, a capo delle truppe garibaldine, diede facoltà alla schiera dei monteleonesi, già cresciuti di numero, di scegliersi il loro capitano. Protettì fu eletto per acclamazione capitano dei suoi e il piccolo esercito si pose in marcia. “Giunti a Curinga videro in basso la cavalleria nemica e intesero con maraviglia essersi impegnato il combattimento”, che volse a favore degli insorti a fianco dei garibaldini del generale Stocco. “Era il mezzogiorno di una giornata d’agosto e i Nazionali soffrivano per fame e per sete, ma l’entusiasmo non veniva mai loro meno, quando non si sa come, sotto di loro videro passare i soldati borbonici, i quali procedendo muti, nulla rispondevano alle grida di Viva Garibaldi! e Viva Vittorio Emanuele! fatte dai nostri. Qui ebbe termine la vita rivoluzionaria del Protettì”, scrive Lumini, che ricorda come il nostro Francesco, alla voce che Garibaldi era a Monteleone, cercò di raggiungere al più presto la sua città, “ma giunto vicino al paese, gli fu detto che il generale aveva già nella notte oltrepassato Monteleone”. Francesco Protettì non incontrò così il suo mito e non ebbe nessuna onorificenza in una Calabria che non era più feudo borbonico, ma apparteneva all’Italia.

Ancora oggi non sono poche le voci che parlano di un Risorgimento tradito per come i Piemontesi trattarono il Sud dopo l’unificazione. Per Francesco e i suoi fratelli patrioti e garibaldini sarebbe un’amarezza in più. “Lo accusarono – scrive Apollo Lumini – di poco amore per i genitori, di lasciare languire il proprio sangue nella miseria, per nutrire i bastardi degli altri”. “Morì povero ma le sue esequie solenni furono il pianto di un intero paese”.

Una amara riflessione fa da corollario a questo racconto. Ce la propone proprio Lumini: “Venuto il Proditattore le croci e gli impieghi volarono; stabilito in nuovo ordine di cose, le onorificenze si accrebbero. Tutti furono pagati, tutti, eccetto quelli che lavorarono. Solita commedia del mondo che farebbe ridere se non fosse già troppo lunga la sua durata”.

*Torinese di nascita, giornalista e scrittore, esperto in contenuti digitali ed editoria multimediale